IL FASCINO DELL’IMMAGINE
A premessa di questa relazione vorrei dire che i miei riferimenti teorici sono da una parte la psicoterapia corporea e dall’altra l’insegnamento lacaniano. La psicoterapia corporea è un approccio psicoterapeutico che discende direttamente dalla psicoanalisi e che vede il corpo oltre che la parola del paziente come protagonista della cura. Freud stesso considera il corpo come il nucleo originario dello sviluppo psichico: “L’Io è innanzitutto un Io corporeo” dice nell’ L’io e l’Es. Legando imprescindibilmente a territori corporei l’elaborazione della sua teoria evolutiva, parla di fase orale, anale e genitale, individuando in queste aree del corpo la localizzazione elettiva della libido, che accompagna gli stadi della maturazione dell’io.
E’ Wilhelm Reich, allievo di Freud, che nel 1933 nell’Analisi del carattere, mostra come oltre le difese psichiche esistano difese che coinvolgono direttamente il versante corporeo, fino a giungere ad elaborare il concetto di corazza caratteriale, per indicare il complesso dell’organizzazione delle difese corporee, che per Reich coincide con il concetto di carattere o di struttura.
La psicoterapia corporea vede uno sviluppo successivo nella bioenergetica di Alexander Lowen.
Si dice che Lowen ha messo in piedi il paziente, infatti ha dato molta importanza alla stazione eretta, prerogativa dell’essere umano, sviluppando così il concetto di grounding o radicamento.
Lowen considera l’equilibrio psichico strettamente legato all’assetto posturale dell’individuo. Quando nella persona c’è un buon radicamento, una postura stabile, c’è un rapporto creativo con la realtà; il concetto di grounding, dunque, non riguarda solo la biomeccanica, riguarda la capacità di rapportarsi con se stessi e con l’altro, la capacità di essere nel qui e ora, avendo la possibilità di incidere nel presente; ad essere coinvolto è il corpo ossia l’inconscio del soggetto, una zona più vasta del territorio dell’Io, per questo parlare di radici del desiderio riguarda la possibilità di accesso ad un corpo vissuto dal di dentro, un corpo non più oggetto ma soggetto, il soggetto dell’inconscio.
Nel mio lavoro è entrato successivamente l’insegnamento di Lacan, che ritengo particolarmente prezioso nell’orientare da un punto di vista teorico la pratica clinica con cui mi trovo a confrontarmi.
Lacan circoscrive il campo dell’esperienza a tre registri, che sono i registri essenziali della realtà umana,: il simbolico, l'immaginario e il reale. Si tratta di tre registri distinti seppur concatenati e collegati tra di loro.
L’immaginario è l’argomento di stasera, dove cercherò di trattare questo tema nell’ambito dello sviluppo e del funzionamento psichico.
Che cos’è un’immagine? L’immagine è innanzitutto memoria.
Il processo che produce le immagini è un percorso complesso, sempre legato all’attività del nostro sguardo: guardare non è passiva ricettività, bensì capacità di ordinare il visibile e organizzare l’esperienza. L’immagine si imprime nella memoria, per far fronte al problema della assenza.
L’imago è nell’antichità la maschera funebre e questo suo legame con la morte ne definisce in modo rilevante il concetto. Difendere la morte attraverso le immagini significa voler preservare la memoria, dunque un’identità storica e culturale, in virtù della quale si cercano modi figurali per intrappolare il tempo nello spazio, nella forma definita di un’immagine rappresentata.
L’incontro con la propria immagine si realizza nell’esperienza dello specchio.
A questo proposito Lacan teorizza lo stadio dello specchio come momento fondamentale dello sviluppo del bambino, che tra i sei e i diciotto mesi si riconosce, per la prima volta, nell’immagine riflessa. Fino ad allora infatti il bambino aveva avuto un’esperienza di sé caratterizzata dalla fluidità e dalla frammentazione del reale corporeo, vissuto che tra l’altro non è mai afferrabile in modo univoco e stabile. L’immagine dello specchio fornisce invece al bambino un’unità totalizzante che esercita un’attrazione identificatoria, in un momento che Lacan definisce di giubilo. Si tratta di un intuizione improvvisa una erlebnis (insight), il bambino può così rispondere alla domanda relativa al suo essere, dicendo: «Io sono quello».
Ma l’io dello specchio è un altro, è un oggetto che sta al di fuori del proprio corpo, è un’unità alienante: infatti «l’essere umano non vede la sua forma realizzata, totale, il miraggio di se stesso, se non fuori di se stesso».A tal proposito Lacan parla di alienazione immaginaria dell’io, effetto che introduce nel soggetto una faglia incolmabile tra l’essere e l’Io.
Il fascino dell’immagine si trova al centro del mito di Narciso e ha a che fare anche se in modo meno evidente con la storia di Caino e Abele. (in alternativa filmato 1 )
Nel racconto di Ovidio, Eco, una ninfa dei monti, si innamorò di un giovane bellissimo di nome Narciso. Quando Narciso raggiunse il sedicesimo anno di età, era un giovane di tale bellezza che ogni abitante della città, uomo o donna, giovane o vecchio, si innamorava di lui, ma Narciso, orgogliosamente, li respingeva tutti. Un giorno, mentre era a caccia di cervi, la ninfa Eco furtivamente seguì il bel giovane tra i boschi desiderosa di rivolgergli la parola, ma era incapace di parlare per prima perché per un torto fatto a Giunone era stata da questa punita e riusciva solo a ripetere le ultime parole di ciò che le veniva detto. Narciso, sentì dei passi e gridò: “Chi è là?”, Eco rispose: “Chi è là?” e così continuò, finché Eco non si mostrò e corse ad abbracciare il bel giovane. Ma Narciso allontanò in malo modo la ninfa dicendole di lasciarlo solo. Eco, con il cuore infranto, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo per il suo amore non corrisposto, finché di lei rimase solo la voce. Nemesi, ascoltando questi lamenti, decise di punire il crudele Narciso. Il ragazzo, mentre era nel bosco, si imbatté in una pozza profonda e si accucciò su di essa per bere. Non appena vide per la prima volta nella sua vita la sua immagine riflessa, si innamorò perdutamente del bel ragazzo che stava fissando, senza rendersi conto di essere lui stesso. Solo dopo un po' si accorse che l'immagine riflessa apparteneva a lui e, comprendendo che non avrebbe mai potuto ottenere quell’amore, si lasciò morire struggendosi inutilmente. Quando le Naiadi vollero prendere il suo corpo per collocarlo sul rogo funebre, al suo posto trovarono un fiore a cui fu dato il nome di narciso.
E veniamo ora alla seconda storia quella di Caino e Abele.
Si legge nella Genesi Caino offrì i frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì i primogeniti del suo gregge. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo». Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.
Il rapporto che l’io intrattiene con lo specchio si verifica anche nella relazione con l’altro speculare, con il simile in cui può rispecchiarsi, non si tratta in questo caso di un rapporto veramente intersoggettivo perché si tratta di una relazione in cui l’io ritrova soltanto un’immagine o un analogo di sé.
Il rapporto con l’altro dello specchio è il prototipo della relazione narcisistica, dove l’individuo oscilla tra il giubilo identificatorio e l’aggressività. L’aggressività è una tensione correlativa alla struttura narcisistica dell’identificazione: sebbene l’immagine offra un appiglio identificatorio al soggetto, rimane però un ideale irraggiungibile, come un miraggio. La passione suscitata dalle relazioni immaginarie, può oscillare pericolosamente tra empatia e aggressività. Inoltre sebbene l’io ritrovi un’immagine di se stesso nell’altro, rischia anche di vedere occupato il proprio posto dall’altro, è l’altro dell’immagine che occupa infatti il posto dell’io ideale, dove il soggetto credeva di poter essere.
È su queste coordinate che si situa il fondamento paranoico dell’identità immaginaria.
Nella clinica possono darsi fondamentalmente tre situazioni: la carenza, la fissazione e la distorsione dell’immaginario.
La carenza dell’immagine.
Il caso più estremo è quello dello schizofrenico che appare come un soggetto frammentato, senza forma, volatile, sparpagliato, perché la schizofrenia è essenzialmente un’esperienza di perdita e di frammentazione dell’identità, di disgregazione dell’immagine stessa del proprio corpo, del corpo a pezzi. Nell’esperienza schizofrenica del mondo il centro è occupato dall’esperienza del corpo. Per lo schizofrenico il corpo, il proprio corpo, non sta insieme, ma tende a disgiungersi, a frammentarsi. Allora lo schizofrenico può inventare strategie differenti per tenere insieme un corpo che, come se fosse mercurio sfugge da tutte le parti. Lacan nel Seminario I sostiene che lo schizofrenico non ha accesso all’immaginario, nel senso che non riesce a guadagnare un’immagine narcisistica sufficientemente stabile per ordinare il campo pulsionale del proprio corpo.
Abbiamo poi i casi della fissazione all’immagine e della distorsione dell’immagine.
Nella relazione tra Eco e Narciso, Narciso è l’immagine, Eco la voce . Eco è la controparte femminile di Narciso, e rappresenta l’amore non ricambiato. C’è il rispecchiamento di Eco nei confronti di Narciso e c’è il rispecchiamento di Narciso nei confronti di se stesso, egli è insieme l’oggetto desiderato e irraggiungibile.
L’immagine riflessa in molte culture primitive è sinonimo di anima. L’immagine, quando ci si riflette in essa, ha la tendenza a far penetrare la coscienza nel corpo: l’abilità consiste nel permettere alla realtà dell’immagine di esistere senza fondersi con essa. Narciso non riesce a includere il corpo nel riconoscimento di se stesso.
L’innamorarsi di Narciso non raggiunge l’oggetto, non raggiunge l’Altro ma trova come suo oggetto l’immagine stessa del soggetto. Se pensiamo che l’oggetto è il riflesso immaginario di sé, la superficie riflettente, lo schermo diventa lo strumento che non lascia passare la pulsione.
Viene spontaneo in ambito psicopatologico pensare all’anoressia. In entrambi i casi c’è un’incapacità di integrare l’aspetto pulsionale e la corporeità, impediti in questo dall’immagine bidimensionale incorporea. Per Narciso l’immagine riflessa è mortifera ed intransitiva, nell’anoressia l’immagine percepita viene deformata sfigurando il corpo, come la ninfa Eco l’anoressica non ha corpo.
Nel mito di Narciso l’ostacolo è Eco, perché costei, troppo timida, di fatto non c’è. L’amore diventa allora amore per la riflessività. Freud legando intimamente lo specchio riflettente e l’ostacolo frustrante attraverso Narciso ha legato l’immagine riflessa all’ostacolo dell’intransitività. Il riflesso può assumere così anche un carattere persecutorio come nella paranoia. Pulsione, immagine, specchio, riflesso persecutorio possono essere una concatenazione che rende la superficie riflettente l’unico vero sguardo del mondo, sul mondo che il soggetto riesce a percepire.
Dice Lowen in proposito: “Il narcisismo denota un investimento sull’immagine che è sproporzionato rispetto alla consapevolezza del proprio essere. Anche se è normale avere un interesse per la propria immagine lo spostamento di identità dal sé all’immagine, che si verifica nel narcisismo, realizza ed esprime una condizione di sofferenza che può avere diversi gradi di importanza, fino alla situazione estrema dello psicopatico”.
Hilde Bruch nella Gabbia d’oro (un classico sull’anoressia) racconta di una sua paziente, una ragazza diciannovenne. Guardando due fotografie che la ritraevano al mare, una di quando aveva quindici anni e il suo peso era normale e l’altra di quando ne aveva diciassette e pesava appena 32 Kg, la ragazza non era in grado di vedere la differenza nella sua corporatura, pur sapendo che una qualche differenza doveva esserci. “Se si osservava allo specchio riusciva talvolta a vedere di essere troppo magra, ma diceva: «non riesco a tenere a mente quest’immagine. Forse la ricordo per un’ora, ma poi comincio a sentirmi troppo grassa.” La Bruch spiega che queste percezioni fallaci valgono a proteggersi contro un’angoscia profonda, quella di non essere un soggetto degno .
Nell’anoressia si può individuare l’attivazione massiva di una particolare immagine, quella della madre fusionale, che suscita un potente desiderio di fusione e un’angoscia di annientamento altrettanto potente. Il conflitto fondamentale nell’anoressia è legato al desiderio di ristabilire l’unità del bambino con la madre in una non differenziazione primitiva che ristabilirebbe l’onnipotenza narcisistica vissuta nella primissima infanzia. L’Altro viene quindi usato come supporto narcisistico indispensabile ma mai sufficiente come se la perdita dell’amore incondizionato comportasse la perdita del proprio valore. C’è la necessità di un oggetto idealizzato sentito come onnipotente.
L’anoressia avrebbe quindi origine da una mancata integrazione delle sensazioni dei diversi distretti corporei, delle loro funzioni e diverse esperienze psicofisiche, dovuta all’interferenza di un’emozione specifica comparsa precocemente nel corso dello sviluppo. Il rifiuto ostinato dell’alimentazione diventa così l’unica possibilità praticabile per dimostrare la propria onnipotenza. Il rifiuto di dipendere dall’altro come dal cibo, si realizza attraverso la distorsione dell’immagine corporea. Se consideriamo l’anoressia innanzitutto malattia dell’immagine corporea, di un corpo disprezzato dove si è concretizzato il pensiero di non accettare intrusioni dall’esterno, risulta difficile poter comporre il corpo vissuto con l’immagine del corpo, ossia il corpo percepito.
Nell’anoressia la categoria dell’ immagine corporea non è una categoria omogenea, diverse sono le storie delle pazienti, diverse le emozioni e i vissuti relativi allo sviluppo delle singole persone. Le informazioni sensoriali sono molteplici, e le loro rappresentazioni mentali cambiano in rapporto alle diverse componenti affettive. Tuttavia attraverso l’immagine corporea è possibile stabilire un ponte tra l’immaginario e il reale analizzando le esperienze soggettive che possono modificare i vissuti.
E veniamo all’ultima declinazione dell’immagine che voglio qui prendere in considerazione: il perturbante.
Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.
Das Unheimliche, tradotto in perturbante, è utilizzato da Freud per esprimere in ambito estetico una particolare attitudine del sentimento della paura, che si sviluppa quando una cosa o una persona, un’impressione, un fatto viene avvertito come familiare ed estraneo allo stesso tempo, provocando angoscia unita ad una spiacevole sensazione di spaesamento. Se l’etimologia del termine “Heim” indica la casa, quindi la familiarità,“Un-heimliche” conduce a tutto ciò che è estraneo, che spiazza e disorienta. O meglio, ciò che “sembra” familiare, ma in verità non lo è. Potrebbe essere anche definito come una commistione di elementi familiari ed elementi estranei. Per questo l’Unheimliche viene anche associato al concetto freudiano di contenuto psichico rimosso.
Freud riprende anche il motivo del Doppelgänger o sosia attribuendovi il carattere di perturbante. Infatti il sosia è una formazione appartenente ai tempi psichici remoti, nei quali aveva un significato amichevole, il sosia diventa poi uno spauracchio così come gli dèi, dopo la caduta della loro religione, si trasformano in dèmoni. La dinamica del gioco di rispecchiamento ha a che fare con la regressione a momenti evolutivi in cui non sono ancora nettamente tracciati i confini tra l’Io e l’Altro. Ciò che egli proietta avanti a sé come proprio ideale è il sostituto del narcisismo perduto dell’infanzia, di quell’epoca, cioè, in cui egli stesso era il proprio ideale. Quindi il sentimento del perturbante origina da eventi angosciosi soggetti a rimozione: l’elemento perturbante non è né nuovo né estraneo, bensì è qualcosa di familiare divenuto estraneo. Il Doppio, dunque, non è specchio della scissione dell’Io, ma residuo di un tempo psico-mitologico in cui vigeva l’ onnipotenza dei pensieri, il subitaneo appagamento dei desideri.
Un esempio di ciò è dato da un episodio autobiografico di Freud:«Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando, per una scossa più violenta del treno, la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa nello specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto». Qualcosa impedisce a Freud di riconoscere se stesso, ma cosa? Nel riflesso di quell’uomo egli stava vedendo la propria esistenza di uomo anziano e, piuttosto che riconoscersi in essa si spaventa, evitando così di riconoscere anche gli aspetti altri del Sé.
Mi piace applicare il topos del sosia al tema in chiave pittorica di un personaggio, Papa Innocenzo X, e i suoi due ritratti.
Innocenzo X salì al trono pontificio dal 1644 e vi rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1655; nei dieci anni di pontificato perseguitò i Barberini, decretò eretici i giansenisti, vide la conclusione della guerra dei Trent’anni, indisse il Giubileo del 1650 e regalò ai posteri uno dei luoghi più barocchi della capitale, Piazza Navona.
A Roma, nel 1650. Velásquez realizza il primo ritratto di questo ipotetico dittico. “Troppo vero!”, avrebbe esclamato il Papa alla vista del dipinto. Lo sguardo deciso è diretto all’osservatore, le braccia poggiano fermamente sui braccioli della poltrona, nell’atteggiamento di un uomo consapevole del suo ruolo e delle sue capacità di saper gestire e mantenere il potere.
A Roma, nel 1954. Il pittore irlandese Francis Bacon ha l’opportunità di visitare la Galleria Doria Pamphilj, dove è conservato il ritratto di Innocenzo X di Velásquez, opera che lo assilla così tanto da collezionarne molteplici riproduzioni fotografiche ma non riesce ad entrare nel museo per vederla dal vivo. Bacon realizza tra il 1949 al 1956 venticinque figure di papi, di cui alcuni ispirati direttamente da Velásquez. Come l’artista irlandese ha interpretato l’altera figura di Papa Pamphilj? Il volto è quello del contemporaneo Pio XII, deformato da un urlo di terrore, il corpo, evanescente, è ingabbiato da pesanti pennellate verticali, il trono papale è diventata una sedia elettrica e il prezioso broccato rosso nello sfondo di Velásquez è sostituito da una coltre nera, le mani sono liquefatte.
L’Innocenzo di Bacon sosia dell’Innocenzo di Velásquez, più che nell’esercizio del potere è nella trappola dal potere.
Questo perturbante dittico si presta bene a significare di come il fascino, il potere dell’immagine possa insensibilmente trasformarsi nella trappola dell’impotenza.
IL TRAUMA DEL LINGUAGGIO
Che cos’è il linguaggio? E’ la facoltà propria dell'uomo di esprimersi e comunicare attraverso un sistema di simboli, in particolare di segni vocali e grafici, ma anche attraverso i gesti, gli atti, il linguaggio del corpo. Freud incontra il tema del simbolo e del simbolismo sin dagli esordi della psicoanalisi, nei sintomi, nei sogni, negli atti mancati. Il linguaggio dunque ha una dimensione che eccede la coscienza, è anche linguaggio dell’inconscio. L’inconscio freudiano non è selvaggio e irrazionale, oscuro e inaccessibile come l’inconscio di cui hanno parlato i poeti romantici o i filosofi idealisti. L’inconscio di Freud è pensato come una ragione che ha una sua propria grammatica.
Freud ha fatto diventare obsoleta l’opposizione tra coscienza e inconscio, ragione e sentimento, ma include nel campo stesso della ragione quel territorio oltre confine che sfugge al controllo della coscienza vigile. Come mostrano i fenomeni isterici, i lapsus, i rituali dell’ossessivo, l’inconscio non è il regno dell’insensato, ma una potenza capace di iniziativa, con regole precise. Non c’è antitesi tra ragione e inconscio, dal momento che quest’ultimo si sviluppa e si manifesta come una ragione, una ragione che sfugge.
L’amnesia, ad esempio, è un fenomeno ricorrente dell’inconscio, che abolisce qualcosa che preferisce ignorare. La psicoanalisi parla a tal proposito di rimozione, dell’allontanamento di qualcosa che il soggetto non sopporta. Ma il rimosso continua a esistere tenta ripetutamente di presentarsi alla coscienza. L’inconscio dunque non è mistico, indicibile, abissale, ma un sapere che interferisce con la successione dei pensieri coscienti. La coscienza non può opporsi all’inconscio come si combatte una potenza mostruosa per abbatterla e annientarla, giacché l’inconscio è una ragione che oltrepassa dall’interno la ragione dell’intenzionalità cosciente.
Nell’Interpretazione dei sogni entra l’idea del simbolo come segno, come sostituto: il simbolo tiene insieme due elementi, uno presente e l’altro latente. L’interpretazione del sogno è la sostituzione del contenuto manifesto con quello latente, di cui il manifesto è portatore. Freud respinge l’interpretazione simbolica tradizionale del sogno, come messaggero di un significato universale, propone piuttosto il metodo cifrato, locale, non globale. La cifra dell’interpretazione si trova nelle libere associazioni del sognatore stesso. In tal modo viene salvaguardata la particolarità del soggetto, i cui simboli hanno un valore individuale. Quella sedia, quel libro, hanno per un determinato soggetto un valore radicalmente personale, ricavabile solo dalla sua storia.
Freud studia i rapporti tra il materiale psicoanalitico e i risultati di altre discipline come la mitologia, la storia delle religioni, il folklore; si accumulano le prove di una sorta di fondo comune dell’umanità, attraverso la comparazione di culture distanti, mai entrate in contatto, che hanno produzioni mitiche e religiose simili, e si avvalgono degli stessi simboli, siamo di fronte a quello che Jung denominerà come inconscio collettivo.
Anche il contributo dell’antropologo Claude Levi-Strauss, in questo caso dal punto di vista del sistema sociale, si rivela fondamentale nello studio dei sistemi simbolici. In Strutture elementari della parentela del 1949,la ricerca di invarianti nei fenomeni sociali e la prevalenza accordata alle relazioni tra i termini di un insieme, piuttosto che ai termini stessi, rappresenta un importante innovazione nello studio dell’ordine simbolico. Lévi-Strauss nello studio dei rapporti di parentela scopre fenomeni dello stesso tipo di quelli linguistici studiati da Jakobson. I termini di parentela come i fonemi si integrano in sistema, funzionano a livello inconscio e obbediscono a leggi generali diffuse universalmente nell’umanità.
In tutte le comunità umane le regole del matrimonio, la nomenclatura, ed il sistema dei privilegi e delle interdizioni, sono la struttura stessa del sistema che ne determina il funzionamento.
La realtà di un sistema umano è la sua struttura e questa struttura è un linguaggio.
Secondo Lévi-Strauss, il complesso di credenze, costumi, norme e istituzioni che costituisce la proibizione dell’incesto presenta i caratteri culturali, sociali, della regola e,unico tra tutte le regole sociali, presenta contemporaneamente il carattere dell’universalità. La proibizione dell’incesto possiede tanto l’universalità delle tendenze e degli istinti biologici quanto il carattere coercitivo delle leggi e delle istituzioni sociali. Per il suo carattere di universalità la proibizione dell’incesto concerne la natura; in quanto regola invece costituisce un fenomeno sociale, appartiene alla cultura.
Nello stesso anno Lévi-Strauss pubblica due articoli cruciali per la psicoanalisi. Nel primo, L'efficacia simbolica, mette a confronto cura sciamanica e psicoanalisi, due cure che fanno un uso esclusivo della parola. Come si spiega, l’efficacia della cura dello sciamano? La risposta è sul versante della credenza, che non ha bisogno di corrispondere a una realtà oggettiva. Importa che l’ammalata creda alla mitologia dello sciamano e che sia un membro di una società che ci crede. Lo sciamano fornisce alla sua ammalata un linguaggio, nel quale possono esprimersi stati affettivi, altrimenti non formulabili. Lo sciamano dà una rappresentazione all’emozione. Il passaggio all’espressione verbale permette di vivere in forma ordinata e intelligibile un’esperienza dolorosa altrimenti indicibile. Lo sciamano riconduce con il racconto mitico le sofferenze dell’ammalata al sistema di credenze della sua comunità: grazie a questa traduzione l’ammalata guarisce. E’ la mentalità di gruppo che permette di legare simbolo e cosa simbolizzata, significante e significato. Gli spiriti malvagi simbolizzano la malattia e il conflitto dello sciamano contro di loro simbolizza il processo di guarigione, che effettivamente si realizza. Il potere simbolizzante non è conferito semplicemente dallo sciamano, è questo il punto centrale, ma è interno alla comunità sociale, culturale, simbolica, alla quale sciamano e paziente appartengono.
Sciamanismo e psicoanalisi sono efficaci, non perché permettano una maggiore conoscenza dei motivi della sofferenza, ma grazie a un’esperienza vissuta specifica, che organizza conflitti inconsci e sofferenze in un ordine simbolico. È il transfert per Lévi-Strauss a permettere la realizzazione simbolica di questa esperienza terapeutica, in psicoanalisi come nella cura sciamanica, entrambe, provocando un’esperienza, ricostruendo un mito. Nella psicoanalisi si tratta di un mito individuale che il malato costruisce con l’aiuto di elementi attinti dal suo passato; nella cura sciamanica di un mito sociale, che il malato riceve dall’esterno.
L’intuizione di Lévi-Strauss, a proposito dell’efficacia simbolica, è quella del potere dei simboli sul corpo.
Le leggi della funzione simbolica, dell’inconscio, sono universali e questo spiega una certa uniformità di struttura delle rappresentazioni collettive e dei miti, le strutture simboliche hanno una ampio ventaglio di variazioni. Come nel caso delle lingue, poche leggi fonologiche permettono molte lingue. E anche i complessi di cui si occupa la psicoanalisi, che per primo Lévi-Strauss chiama miti individuali, si ricollegano a pochi tipi semplici. Così Lévi-Strauss, laicizza l’inconscio collettivo di Jung e arriva allo stesso risultato di far prevalere l’universale sul particolare, che si chiama ora funzione simbolica e non archetipi dell’inconscio collettivo, legati a una realtà trascendente.
Il secondo articolo, Lo stregone e la sua magia, studia gli effetti del significante sul corpo, l’efficacia simbolica, a livello sociale e non solo nella pratica sciamanica. Un soggetto convinto di aver subìto un sortilegio negativo, è certo di non avere scampo. L’intera comunità cui appartiene condivide la sua certezza e lo isola, si comporta nei suoi confronti come se fosse già morto e insieme fonte di pericolo per chi lo avvicina. Mano a mano il soggetto stregato in preda al terrore, cede e si ammala. Quei fattori simbolici e sociali che lo facevano soggetto, di diritti e di doveri, ora lo condannano alla segregazione e alla morte. L’integrità fisica non resiste alla dissoluzione della personalità sociale.
Per Lévi-Strauss l’inconscio è il terreno di mediazione tra individuale e collettivo, tra soggettivo e oggettivo. L’inconscio è insieme individuale e universale.
“Al pari del linguaggio, il fattore sociale è una realtà autonoma. I simboli sono più reali delle cose che rappresentano, il significante precede e determina il significato.”
In linguistica Ferdinand de Saussure indica con significante il segno espressivo correlato al significato. Il significante è la parte fisicamente percepibile del segno linguistico: l'insieme degli elementi fonetici e grafici che vengono associati ad un significato che invece è un concetto mentale, che rimanda all'oggetto (un elemento extralinguistico). Significante e significato sono legati da un rapporto di presupposizione reciproca: la forma espressiva articola il contenuto; il contenuto può essere manifestato solo attraverso una forma significante. Dire che il significante determina il significato vuol dire che la forma prevale sul contenuto, dunque che il soggetto è inizialmente assoggettato alla struttura.
Quando si manifesta il punto zero del simbolo, come nella parola d’ordine che evita la morte nella relazione di riconoscimento, solo il significante è importante, mentre nessuna importanza si attribuisce al significato.
Che cos’è quindi il linguaggio? E’ prima di tutto un patto interumano, espressione sociale dell’esigenza di riconoscimento. L’esigenza di riconoscimento implica che l'atto di parola è un atto di fondazione del soggetto; Il soggetto, a sua insaputa, è orientato da un fondamentale desiderio di riconoscimento, che prevale su tutti i desideri, testimonianza della prevalenza della comunità sull’individuo.
“L’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita”: quando dico a mia moglie «Tu sei mia moglie», quest’atto di parola chiede sempre una risposta, che avrà per l’emittente una forma inversa, e cioè in questo caso «Io sono tuo marito».
La parola è in sostanza una domanda di riconoscimento.
Il linguaggio precede l’esistenza del soggetto. Dice Lacan : “Nasciamo in un bagno di linguaggio”. Prima di essere nati, c’è già una storia, un discorso che ci precede, quando ad esempio si comincia a discutere del nome proprio del nascituro. Ma ancor prima già l’intenzione di concepimento prevede un discorso entro cui il soggetto suo malgrado viene inscritto. Allorché madre e padre desiderano un figlio, nello stesso momento in cui intorno alla figura di colui che verrà al mondo si instaurano discorsi a lui rivolti in forma di discussioni, parole, dialoghi, nel momento in cui s’inventano favole o ci si rivolge al figlio che verrà, preparando la sua stanza, il suo lettino, l’azione del significante è già in atto.
Dai primi giorni di vita, il bambino dipende dall’Altro, il suo grido deve essere interpretato, le sue intenzioni incontrano la voce dei genitori, diventano le loro parole. È interpretando il grido come una domanda, che il bambino viene introdotto nel linguaggio, il bimbo piange, la madre interpreta: “Hai fame? Hai freddo? Hai sonno?” Le parole della madre orientano il bambino, trasformando la richiesta in domanda.
Ecco perché si parla di trauma del linguaggio, perché il soggetto è inerme inizialmente, rispetto al sistema del linguaggio, lo subisce.
Il mito legato al trauma del linguaggio, che Freud tradusse in complesso è il mito di Edipo
Laio, re di Tebe, ha appreso da un oracolo che sarà ucciso dal figlio che avrà dalla moglie Giocasta. Così, quando Edipo nasce, lo affida a un servo perché lo elimini. Ma il servo ne ha pietà e lo espone sul Monte Citerone. Qui il neonato è raccolto da un pastore e portato a Polibo, re di Corinto, il quale lo alleva facendogli credere di essere il proprio figlio. Un giorno, però, alcune voci insospettiscono Edipo, che si reca a Delfi per sapere dall'oracolo chi sia realmente suo padre. L'oracolo non risponde alla sua domanda, ma gli predice che ucciderà il padre e sposerà la madre. Inorridito, e convinto che i suoi genitori siano Polibo e sua moglie, Edipo fugge via da Corinto. Lungo la strada verso Tebe si imbatte in Laio e nei suoi servi, e con essi si scontra per futili motivi. Ignorando di avere dinanzi a sé il re di Tebe, Edipo uccide Laio e la sua scorta, per legittima difesa; solo un servo riesce a fuggire. Intanto Tebe è funestata dal flagello della Sfinge: un mostro alato con volto di donna e petto, zampe e coda di leone, che pone indovinelli ai passanti e divora coloro che non sanno rispondere. L'eroe risolve l'enigma che la Sfinge gli propone. L'eliminazione della Sfinge gli vale il trono di Tebe e la mano di Giocasta, rimasta vedova di Laio.
Con Giocasta Edipo genera Eteocle, Polinice, Antigone, Ismene. Diventa un signore potente e onorato. Ma una terribile pestilenza si abbatte su Tebe: l'oracolo di Delfi fa sapere che essa non cesserà finché non sarà scoperto e punito l'uccisore di Laio. Edipo non sa che il colpevole è proprio lui e giura ai Tebani che l'assassino sarà punito severamente.
Viene interrogato il vecchio indovino Tiresia, il quale preferirebbe tacere. Ma quando Edipo lo minaccia è costretto a indicare proprio in lui l'assassino che egli cerca. Edipo però non gli crede, e sospetta che Tiresia stia tramando con Creonte, fratello di Giocasta, per togliergli il trono.
Quando, però, Edipo apprende da Giocasta i particolari sull'uccisione di Laio, comincia a sentirsi inquieto per la somiglianza con l'episodio capitatogli tempo addietro. Nel frattempo giunge da Corinto un vecchio messaggero ad annunciare la morte di Polibo. Edipo si rincuora pensando che l'oracolo che gli prediceva l'assassinio di suo padre non si è avverato. Senonché il vecchio gli rivela che Polibo non era in realtà suo padre: egli stesso, anni prima, lo aveva raccolto trovatello sul Citerone. A questo punto Giocasta comprende la verità e, sconvolta, si ritira nella reggia.
Quando arriva il vecchio servo di Laio e si viene a sapere che proprio lui aveva esposto il figlio del re sul Citerone, la verità emerge in tutta la sua crudezza. Giunge intanto la notizia che Giocasta si è impiccata.
Edipo rientra nel palazzo e si acceca. Ne esce con le orbite insanguinate. Con la sua presenza e i suoi orrori ha contaminato Tebe: andrà via in esilio, accompagnato dalla figlia Antigone.
L'esilio e la vita di Edipo, ormai cieco e stanco, hanno termine a Colono, nella campagna vicino alla città di Atene, dove Edipo vaga insieme alla figlia Antigone. Qui Edipo, richiamato da una voce misteriosa e dal rombo di un tuono, si addentra nel bosco delle dee Eumenidi, dove si ritirerà per morire in modo misterioso. Il suo corpo non sarà ritrovato. Sarà venerato come un eroe.
Nel mito di Edipo non vediamo l'esempio di un colpevole punito, né di un uomo privo di volontà oggetto di trastullo nelle mani del fato, né di un uomo giusto succube degli dei maligni, ma piuttosto un esempio di quella che è la condizione umana: Edipo è uomo e come tale soggetto agl'infiniti mali che possono abbattersi su un essere umano.
La Sfinge sottopone a Edipo l’enigma: Qual è l’essere, il solo tra quelli che abitano la terra, l’acqua, l’aria, che ha una sola voce, un solo modo di parlare, una sola natura, ma ha quattro piedi, due piedi, tre piedi (dipous,tripous,tetrapous)?
Edipo risponde: “E’ l’uomo.” si tratta di una soluzione inscritta nel suo nome. Oedipous, piedi gonfi, è anche colui che sa dell’enigma dei piedi (Edipo è riconoscibile dai piedi, poiché forato nei piedi appena nato. Era usanza greca che se il padre uccideva il piccolo nato, gli trapassava i piedi con un chiodo per impedire che questi tornasse dall’oltretomba a perseguitarlo). Edipo appartiene alla dinastia tebana dei Labdacidi, è nipote di Labdaco (lo zoppo), figlio di Laio (lo sbilenco) ed il suo nome significa “colui che ha i piedi gonfi”.
Questo mi riporta a quanto dice Lowen sul grounding, al radicamento come organizzazione posturale che è metafora incarnata di una buona relazione con se stessi e con l’altro, dunque con l’inconscio.
Freud parla di complesso di Edipo, ipotizzando che l'evoluzione del desiderio incestuoso nella vita individuale, prima sperimentato e poi rimosso, costituisca il complesso nucleare dello sviluppo psichico. Lacan sviluppa il concetto freudiano, coniugando la maturazione genitale all’entrata del bambino nel mondo dell’ordine simbolico, individua tre tempi del processo.
In una fase precoce, il bambino sente di essere tutto per la madre, ciò che l'appaga completamente. Lacan quando parla di questa condizione di completezza, dice che il bambino colma la mancanza della madre. Il bambino, dunque, in una relazione immaginaria con la madre, si identifica con l'oggetto del desiderio materno. Questo è il tempo dell'infatuazione reciproca fra madre e bambino.
L'entrata in scena del Nome-del-Padre, segna la separazione della coppia madre-bambino, instaurando il passaggio dalla dialettica immaginaria, al secondo tempo dell'Edipo, la dialettica simbolica. La funzione paterna opera una manovra d'interdizione (castrazione simbolica). Il Nome del Padre indica colui da cui la madre va, quando esce dalla porta, quando non è presente. Si tratta del nome del desiderio della madre, significa che il suo desiderio è orientato anche altrove rispetto al bambino. Qui il padre interviene in quanto padre che priva, in quanto padre che dice no, la madre può così essere anche donna, e il bambino può cominciare a interrogarsi sull'enigma del Desiderio-della-Madre, su ciò che la conduce altrove, nella sua assenza. Infatti il desiderio materno per il bambino è un significante puro, un enigma. Il significante infatti vuol dire qualcosa, ma per dirlo deve articolarsi a un altro significante. Il Nome-del-Padre costituisce proprio quella legge che determina le articolazioni dei significanti e fa il suo ingresso nella struttura del soggetto. La dimensione simbolica subentra quindi come risposta all'enigma aperto dalla rottura della dialettica immaginaria.
La Legge del significante non è però soltanto un'interdizione del godimento, infatti il tramonto dell'Edipo apre al bambino un’altra dimensione. Nella terza fase, la tappa feconda, la funzione del padre consiste nel fornire al soggetto un modello a cui identificarsi, ma questa volta su un piano simbolico. Il padre risarcisce il sacrificio del bambino con un dono simbolico: un ideale che struttura nel soggetto l'annodamento tra legge e desiderio. L'intervento del Nome-del-Padre è dunque necessario affinché il soggetto trovi posto in un apparato simbolico.
Il carattere duplice della funzione paterna è questo: da una parte l'interdizione, e dall'altra l'abilitazione al desiderio.
Qui viene a delinearsi il godimento edipico, frutto dell’accettazione da parte del soggetto della proibizione del godimento incestuoso. “La castrazione vuol dire che bisogna che il godimento sia rifiutato perché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della Legge del desiderio”. Occorre che il godimento (incestuoso) sia proibito perché possa essere elevato alla dignità di un godimento permesso che si presenta sotto forma di desiderio.
L’azione del linguaggio assoggetta il soggetto a un ordine che lo trascende e che impone, attraverso la legge della separazione tra significante e significato, che quando il soggetto parla il livello del suo enunciato (di ciò che dice) non potrà mai coincidere con quello della sua enunciazione (da dove dice ciò che dice) perché è quest’ultimo livello a costituire quella parte del discorso del soggetto che sfugge costantemente alla possibilità di presa del soggetto, perché ne è costitutivamente separato dalla rimozione. Ciò sfocia nella concettualizzazione di un soggetto che è sempre diviso.
Allo stesso modo, il soggetto non potrà mai consistere in un solo significante, non potrà mai essere identificato con un solo significante, poiché si ritroverà rappresentato da un significante presso un altro significante, ciò significa che il soggetto è diviso, non è un’identità, non è una semplice presenza, non consiste di nessuna sostanza, ma la sua esistenza è sospesa, differita da quello stesso linguaggio che la fa esistere. Dove c’è il linguaggio, il soggetto può darsi solo come effetto di una cancellazione (“rimozione originaria”): “io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto”. Il che significa che il soggetto si costituisce sempre come diviso perché può farsi rappresentare solo là dove non è, “altrove”, in un “terzo luogo” che scompone la sua stessa struttura e in cui consiste, in ultima istanza, l’inconscio.
C’è un carattere equivoco della parola: ”la funzione della parola è di nascondere e insieme di scoprire”. Nel testo si deve cogliere ciò che la parola dice e ciò che non dice, e a questo testo sono legati i sintomi nello stesso modo in cui un rebus è legato alla frase che nasconde e insieme apre alla decifrazione.
L’intenzione del soggetto è superata dagli effetti dell’articolazione significante. Il soggetto che parla dice di più di quel che vuole dire.
Nell’analisi si rilegge la propria storia attraverso la ricostruzione della trama significante.
Ci possono essere diversi esempi clinici.
La clinica dell'isteria si fonda innanzitutto sul potere espressivo del corpo, sulla dimensione simbolica del corpo. Per questo si parla di compiacenza somatica o di conversione per definire la plasticità del corpo isterico nel tradurre, nel convertire somaticamente i conflitti di ordine psichico che attraversano il soggetto. La conversione è conversione dello psichico in somatico, è convertire i pensieri inconsci in fenomeni del corpo.
E’ l'esatto rovescio di quello che accade nella nevrosi ossessiva. Nella nevrosi ossessiva assistiamo ad una conversione del corpo nei pensieri, dei fenomeni di eccitazione del corpo in ruminazioni, disturbi dell'attenzione, disturbi del pensiero. Nella nevrosi ossessiva c’è un problema del disturbo del pensiero (ruminazione dubbiosa) causato dall'eccitazione inconscia del corpo di cui l'esempio più eclatante è l'apparizione nella catena ordinaria dei pensieri di parole blasfeme.
Nella parola blasfema che si impone nel pensiero ossessivo noi dobbiamo sempre reperire una “corrente eccitatoria” del corpo sessuale che fa irruzione nella cogitazione autoreferenziale del soggetto disturbandola.
Nella figura della compiacenza somatica, il corpo sta al posto dei pensieri rimossi. Nel fenomeno di conversione si manifesta una sessualizzazione inconscia del corpo che resta nella clinica dell'isteria la questione centrale.
Ma il fenomeno di conversione non è decisivo per la diagnosi di isteria. Piuttosto c'è l'idea di un'estensione del concetto di conversione al corpo in quanto strutturato dal simbolico. Il corpo dell'essere parlante, essendo strutturato dal simbolico, si presta sempre a fenomeni di conversione.
Nella struttura psicotica non avviene il passaggio all’ordine simbolico. La funzione logica del Nome-del-Padre non ha tracciato una trama simbolica in grado di stabilire una separazione nella coppia speculare madre-bambino, che continua così a rapportarsi intorno a questa comune illusione.
Il Nome-del-Padre è un significante paterno che ha valore fondativo. Nella psicosi viene meno la funzione costitutiva del Nome-del-Padre, questa non offre alcuna garanzia; in un certo senso il soggetto ne scopre l’arbitrarietà e lo rigetta. Nel caso della nevrosi la rimozione è rimozione del desiderio inconscio, rimozione di un moto del desiderio. Nella psicosi invece non è il desiderio ad essere rimosso, ma la realtà stessa, o meglio il fondamento che struttura la realtà, cioè il Nome del Padre, cioè la castrazione simbolica.
Voglio terminare parlando della lingua che precede la lingua.
Lalangue è un neologismo che allude ad un uso primitivo del linguaggio, si riferisce alla lallazione del bambino, quando non padroneggia ancora il linguaggio nella sua struttura.
Qui il linguaggio è lingua incarnata.
Se il linguaggio dell’universale è da parte del padre, il linguaggio di lalangue è dalla parte della madre. Lalangue costituisce il lato singolare dell’universale del linguaggio che si produce nel corpo a corpo con la madre, nel corpo a corpo con i significanti che si trasmettono al bambino impregnati del godimento dell’Altro.
Lalangue mostra che il linguaggio non si può ridurre alla comunicazione perché porta in sé la dimensione del godimento, è il linguaggio articolato nel corpo, è il trauma del linguaggio. Infatti non si deve equivocare, lalangue non è uno stato armonioso che precede il linguaggio. E’ piuttosto un trauma dovuto al fatto che il bambino si trova immerso in un mare contingente di significanti, provenienti dall’Altro, che non governa, e che incidono sul suo corpo.
L’essere umano è fatto dal linguaggio , il linguaggio ci fa come la frusta ferisce la carne, ecco perché si parla di trauma. Il linguaggio è più incidenza, atto, piuttosto che luogo di significazione. Il trauma è un incontro di forte impatto che diventa il fondamento della vita.
L’ESPERIENZA DEL REALE
Che cos’è il reale? Il Reale non è la realtà. Nella psicoanalisi lacaniana i termini reale e realtà hanno anzi significati antitetici. La realtà è ciò che è culturalmente condiviso, il reale, invece, è ciò che accade, ciò che ci cade addosso, qualcosa che ci prende da dietro e ci trasporta. E’ l’ingovernabilità della vita, ciò che né il linguaggio né qualunque altro strumento umano riescono a educare. E’ ciò che accade per caso. C’è un al di là dell’inconscio simbolico, dove si produce il reale che non rimanda a nulla, che è muto e non significa nulla. Il reale é tutto ciò che non trova luogo nella simbolizzazione, non è dicibile, non è dell’ordine del senso, e d’altra parte e proprio per questo, tocca nel vivo, nell’intimo, l’esperienza del soggetto. Nell’esperienza quotidiana non ci chiediamo se la realtà che ci circonda è un’illusione, tendiamo a darla per scontata, a considerare normali tutte le cose che ritroviamo al loro posto. Dove incontriamo il reale? Per Freud lo incontriamo negli incubi e in generale nell’angoscia; cioè lo incontriamo in qualcosa che ci sveglia e ci impedisce di continuare a dormire, perché siamo arrivati troppo vicini alla verità del nostro essere.
L' incontro con il reale è sempre l'incontro con un limite che scuote, con qualcosa che impedisce di continuare a dormire.
L'apparizione di una malattia, la perdita del lavoro, l'insistenza di un sintomo che danneggia e che nessuna interpretazione riesce a far regredire; ma anche un nuovo amore, la nascita di un figlio, una conquista collettiva: tutto ciò che risveglia dal sonno della realtà, è reale, compreso l'incubo di cui parla Freud.
Il reale è ciò da cui non si può fuggire.
Il reale è associato ad un trauma che introduce nella nostra vita una discontinuità che spezza il sonno della routine, della normalità della realtà. “Sono davvero io quel vecchio che vedo riflesso allo specchio?”, si chiede Freud, nello scompartimento del vagone letto.
Il reale, non coincide con la realtà ma è ciò che la scompagina. Il reale è ciò che resiste al potere dell' interpretazione, non coincide con la realtà poiché la realtà tende ad essere anzi il velo che ricopre l' asperità scabrosa del reale. La tendenza degli esseri umani è di cercare rifugio nel sonno della realtà per neutralizzare il trauma del reale. La realtà è l'analgesico del reale. E' uno schermo che serve a proteggere la vita.
Il reale fa obiezione al senso, non tutto è del linguaggio. Il reale è l’accadimento dell’inconscio, la contingenza, la declinazione singolare, l’espressione di un tempo non implicato nella dialettica ma scandito dal godimento.
Il reale per Lacan è il reale della nostra mancanza, del fatto che noi non siamo. il bambino piange e ad un certo punto apprende verbalmente dalla madre che piange perché ha fame; in questo modo egli fissa simbolicamente il suo desiderio nel significante “aver fame”. Ma si tratta del tradimento della vera ragione per cui piangeva, che sarà per sempre il suo reale irraggiungibile, pur essendo la causa del suo piangere. Ogni essere umano che soffre cerca sempre questo reale, la causa reale del suo dolore, le emozioni sono l’effetto di questo reale.
Il reale è ciò che è fuori dal senso.
A questo punto è necessario introdurre il concetto lacaniano di godimento che deriva dal concetto di Freud di pulsione di morte.
In Al di là del principio di piacere del '20 Freud sostiene che nella vita psichica esiste una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere. Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita demoniaca; è riscontrabile nella nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondiale e in generale in chi tende a rivivere i traumi.
Anche il sintomo nevrotico si ripete; si ripete per non ricordare. Freud notò che le coazioni tendono a una ripetizione assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente.
Questa coazione si produce anche nelle circostanze più ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Impara così a padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (fort, via!), quando il rocchetto è lontano, e da un "aaaaaaa..." (da, eccolo!), quando il rocchetto è di nuovo vicino.
Ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per riprenderne il controllo e limitarne l'effetto.
Ma il soggetto non è orientato nel suo agire solo dal principio di piacere che sarebbe la tendenza a raggiungere l’equilibrio, il temperamento degli eccessi, la via mediana, per Freud c’è anche la pulsione di morte che spinge il soggetto al di là del principio di piacere verso un godimento rovinoso. Tutti gli esseri viventi tendono infatti verso la morte.
Lacan si chiede: “Il corpo a che cosa serve? il corpo serve a godere” e quantomeno si ha la padronanza di questo godimento tanto più si gode, quanto più il soggetto svanisce e si lascia portare dal corpo, che conosce la strada della sua soddisfazione, tanto più questo godimento si realizza. Lacan riprende questa dimensione iperedonistica dell’essere umano, il che significa che siamo governati da un impulso a godere, al di là del proprio benessere. Questo significa affermare che il godimento pulsionale porta con sé un’eccedenza, porta con sé la tendenza a superare ogni limite, questo da una parte in un senso propulsivo, in senso vitale, ma c’è anche una versione nichilista del godimento che diventa così un godimento mortale senza più desiderio. E’ una soddisfazione autodistruttiva, maligna, spinta libidica irresistibile verso qualcosa che arreca al soggetto una sofferenza che lo fa godere. In riferimento alla clinica, questa pulsione autodistruttiva è rintracciabile per esempio nella relazione del masochista con il partner o nel rapporto dell'anoressica con il cibo. Il godimento rimane sordo al potere del senso e della parola. Rappresenta dunque nell'esperienza del soggetto la presenza di una dimensione che risulta inassimilabile al senso e che appartiene semmai all'insensatezza delle scelte umane, che sembrano così sfuggire al principio di adattamento.
Il reale è l’impossibilità di annullare lo scarto tra l’al-di-qua e l’al-di-là dello specchio, dividendo il soggetto dalla propria immagine ideale. Il soggetto si identifica con un’immagine fuori di sé e lo scarto tra immagine e il soggetto, è lo spazio dove si colloca il reale.
In un secondo tempo, il reale viene definito dall’espressione significante/significato, diventa la sbarra che oppone resistenza alla significazione, che definisce la condizione non significante della significazione.
Il reale introduce uno iato, una scissione nel soggetto, l’alienazione immaginaria nello stadio dello specchio, la castrazione nel caso della funzione simbolica. Il soggetto, da un lato è preso nel dramma dello specchio, dall’altro nella rete del significante.
Ciò che resiste all’operazione del significante, è rappresentato dall’oggetto (a), che è ciò che rimane fuori dalla simbolizzazione del linguaggio, è la perdita di senso che si realizza nell’operazione del linguaggio. Il resto, prodotto dalla legge di castrazione, è qualcosa che rimane fuorilegge, fuori dalla legge del simbolico e nello stesso tempo implica un godimento, mai pienamente sottoposto alla norma.
L’oggetto (a) è un concetto chiave della psicoanalisi lacaniana. E’ l’oggetto causa del desiderio.
Il mito greco che si collega con il concetto lacaniano di reale si può rintracciare nella sapienza dionisiaca del saggio Sileno.
Il mito di Sileno.
«L'antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: 'Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto.»
Con queste parole Nietzsche inizia la Nascita della tragedia.
Quello che egli coglie in quella che suona come una sentenza del pessimismo metafisico è esattamente il suo rovescio, cioè un dire sì alla vita in ogni sua manifestazione, compreso il dolore.
Si tratta di un’affermazione potentemente aporetica, tendente soprattutto a ribadire il limite insuperabile della condizione umana.
E’ lo stesso Dioniso che parla per bocca di Sileno, e la sua risposta a Mida è in realtà pari al responso di un oracolo, e pienamente compatibile con il linguaggio oracolare, il discorso di Sileno è doppio, il suo significato può essere colto solo attraverso un processo simile a quello di una doppia negazione.
Per sostenere che non è possibile dire ciò che è meglio per l’uomo, Sileno afferma l’unica cosa davvero impossibile “non essere mai nato”.
Più che manifestare una compiuta visione pessimistica, esprime nella forma del paradosso l’inattingibilità per l’uomo di un sapere positivamente definito riguardante la propria condizione. Attraverso la sua consapevolezza tragica Sileno è un distruttore che porta in sé i germi della rinascita.
Anche in Storia della follia di Foucault si fa riferimento al Sileno.
Il Sileno nell’argomentazione di Foucault è colui che, in primo luogo, rivela la follia inerente alla condizione umana, in secondo, si fa strumento del sapere critico, andando a portare il suo contributo nel processo di metabolizzazione dell’esperienza della follia. Esso denuncia così la follia degli uomini, similarmente a quanto operato dai pittori, con la differenza che, nella sua denuncia, è già inclusa una soluzione. Il Sileno in quanto strumento di comprensione è già un modo per stemperare l’incontenibile forza della follia.
Foucault citando Erasmo dice: “Tutte le cose umane, come i Sileni, hanno due aspetti diversissimi tra loro: ciò che a prima vista, come si dice, è morte, se lo guardi più dall’interno si rivela vita; la vita invece si rivela morte, ciò che è bello, brutto, ciò che è sontuoso, misero, ciò che è infame, glorioso, ciò che è dotto, ignorante, ciò che è forte, debole, ciò che è nobile, plebeo, ciò che è lieto, triste, la fortuna sfortuna, l’amico nemico, ciò che è salutare nocivo: insomma una volta aperto il Sileno troverai capovolti tutti i valori.”
L’esperienza schizofrenica è una chiave d’accesso all’inconscio reale. Lo psicotico è l’unico ad afferrare il reale, perché rifiuta il simbolico.
Secondo il discorso psichiatrico, il soggetto psicotico infatti perde il contatto con la realtà. In questo senso, il soggetto psicotico mina strutturalmente l’ordine sociale, con la sua produzione di sensi altri, che non si amalgamano con il sapere condiviso.
Racconta Foucault in Storia della follia nell’età classica, che alla fine del Medioevo, la follia prende il posto della lebbra, ormai scomparsa, venendosi gradualmente a insediare nei luoghi previsti per i lebbrosi. I folli assumono anche l’onere dello stesso meccanismo di esclusione di cui i lebbrosi erano oggetto. Non è ancora il “Grande internamento”, che avverrà con la fondazione dell’Hôpital général di Parigi nel 1656. I folli, messi ai margini delle città, si raccolgono presso mete di pellegrinaggi o presso importanti centri di scambio.
Nel Medioevo il folle viene collocato ai margini della comunità ma non al di fuori di essa; la sua messa al bando non impedisce che egli abbia un ruolo sociale e simbolico, esercitando un forte potere di seduzione anche sulla filosofia e sulla religione di quel periodo.
Il Medioevo non guarda in faccia l'uomo folle, ma, paradossalmente, questo personaggio è detentore di un sapere oscuro e impenetrabile, può accedere alla visione di realtà trascendenti intrise di segreti misteriosi la cui conoscenza è preclusa all'uomo comune.
Molto spesso le città affidano agli equipaggi delle imbarcazioni che solcano i grandi fiumi del centro Europa gli individui ritenuti disturbanti l’ordine sociale. Questo costume è il motivo di diverse opere pittoriche e letterarie, affascinate dall’immagine della Nave dei folli .
Prigioniero nella nave da cui non si evade, il folle viene affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, a questa grande incertezza esteriore a tutto. Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade. E' il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli.
L'acqua e la navigazione hanno un significato: l'acqua e la follia sono legate nell’immaginario dell'uomo europeo. Ma, perché dunque, verso il quindicesimo secolo, questa improvvisa formulazione del tema, nella letteratura e nell'iconografia? Perché si vede sorgere d'un tratto la sagoma della nave dei folli, e il suo equipaggio insensato che invade i paesaggi più familiari?
Dalla vecchia alleanza dell'acqua con la follia, è nata questa barca che simbolizza un'inquietudine, apparsa improvvisamente all'orizzonte della cultura europea verso la fine del Medioevo. La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo, e meschino ridicolo degli uomini.
Ma al declino del Medioevo i pazzi cominciano a essere rimossi dalla comunicazione sociale, da questo momento si costituisce la criminalizzazione della follia, la sua segregazione e repressione nel manicomio.
Si dovrà arrivare agli anni ’70 del novecento per vedere invertirsi questa tendenza in Europa, nel movimento dell’anti psichiatria.
Voglio ora introdurre il filmato tratto da Stalker di Tarkovskij che andremo a vedere.
Ecco la trama del film:
Un intellettuale e uno scienziato, accompagnati da uno stalker una guida illegale, si avventurano nella Zona, un territorio rurale desolato, con tracce di industrie dismesse, dove le normali leggi fisiche hanno subìto una mutazione per cause ignote.
Alcuni ne attribuiscono la ragione alla caduta di un meteorite, altri ad un’invasione degli alieni. La zona è isolata da un cordone di sicurezza governativo, ma anche gli stessi militari non osano spingersi nel territorio, che pare essere contaminato da radiazioni; si dice, inoltre, che un edificio in rovina nel centro della zona contenga una stanza, in cui chi vi entra può avverare i suoi desideri più intimi e segreti ed è questo il luogo che i tre uomini vogliono raggiungere. Lo scrittore ha perso la sua ispirazione e vuole recuperarla, mentre il professore desidera, a quanto sembra, vincere il Nobel.
Per entrare nella zona gli esploratori devono forzare un posto di blocco, eludere una pattuglia, e dopo aver superato questo ostacolo, la scena muta dal bianco e nero al colore.
Lo stalker conduce il gruppo dapprima su un carrello ferroviario in un percorso lungo e monotono e poi a piedi, in campagna, nel cuore della zona, nel continuo sforzo di riconoscere e superare insidie misteriose ed evitare le più pericolose. I criteri di avanzamento dello stalker sono enigmatici, e il percorso seguito, impossibile da comprendere, a volte si avvale del lancio di dadi legati a strisce, come per sondare la percorribilità di un luogo; non si può mai tornare sui propri passi e l'avanzamento deve avvenire uno per volta, tuttavia alcuni luoghi sono tranquilli, i tre uomini vi sostano e discutono del significato della vita, di etica, fede e scienza; non si può accedere direttamente all'edificio contenente la stanza, un tentativo in tal senso è fatto dallo scrittore, ma qualcosa cambia nel vento, ed egli torna dopo avere percorso circa metà dei cinquanta metri che lo separavano dalla stanza, tracciando una spirale.
Si respira un’aria irreale nella zona, come se ci si trovasse su di un pianeta sconosciuto, ci sono improvvisi scrosci di pioggia, che repentinamente cessano, non avvengono fatti eclatanti, ma insoliti piccoli fenomeni, che lo stalker dice essere dovuti all’interazione tra la zona e i soggetti che vi si trovano. C’è un atmosfera di paura, attesa, noia mescolate insieme.
Poi i tre si abbandonano lungamente nel sonno, nel luogo inospitale eppure accogliente, al risveglio li aspetta il tragitto più pericoloso, un lungo tunnel, chiamato tritacarne, all’uscita del quale si apre alla vista un paesaggio inedito: una spianata di sabbia con cunette e avvallamenti, su cui non è facile mantenere l’equilibrio.
Lo stalker racconta che non è mai voluto entrare nella stanza, ciò che sa, gli è stato confidato da un altro stalker suo mentore; questi decise di entrare per esprimere il desiderio di resuscitare il fratello, ma la stanza, che avvera i desideri più intimi, gli donò invece un'inaspettata ricchezza; preso atto che nel profondo del suo animo tale brama era più forte del desiderio di riportare in vita il fratello, si suicidò.
Poi c’è un colpo di scena: sulla soglia della stanza si scopre che lo scienziato ha una minuscola bomba atomica, che mette a punto con l'intenzione di distruggere la stanza, per prevenire un eventuale uso distruttivo dei suoi poteri. Tale rivelazione porta ad una violenta discussione. Lo stalker si dispera, supplica lo scienziato, dicendo che la zona è la sua unica ragione di vita, alla fine il professore rinuncia al suo proposito, abbandonando l'ordigno smontato, in un rivolo d'acqua.
Dall'interno della stanza, la macchina da presa inquadra gli uomini seduti davanti alla soglia con lo sguardo incerto rivolto verso la stessa, senza chiarire se vi entreranno.
Nella delicata narrazione discorsiva e visiva, Tarkovskij evoca atmosfere interiori oscillanti tra la speranza e la disperazione. Il film è una metafora poetica di un viaggio iniziatico alla ricerca di se stessi, rappresenta il difficile e tortuoso cammino per arrivare in prossimità dell’inconscio.
I protagonisti, lo scienziato e l’intellettuale, esprimono tutto il loro scetticismo, ma non hanno nessuno strumento per dare un senso alla vita, il più vicino alla verità appare allora lo stalker, colui che insegue più che colui che guida, a cui non importa l’osservanza della legge, che ha paura di entrare nella stanza, ma che manifesta appassionatamente la sua fede ingenua.
Dopo lungo girovagare secondo schemi di cui non si comprende il disegno, secondo tragitti di cui non si riconosce la mappatura, si giunge sulla soglia di quel luogo recondito, che ha il potere di influire sulla materialità delle cose che accadono.
Vedo una forte analogia tra la Zona e il Reale.
Nell’epoca contemporanea le manifestazioni sintomatiche hanno smesso di veicolare la corrente inconscia del desiderio. I nuovi paradigmi clinici non sono più i rappresentanti di una discrepanza tra il desiderio soggettivo e le richieste della società, non sono l’indice di quella questione che pone il soggetto in impasse rispetto all’Altro.
La clinica dei nuovi sintomi è una “clinica del vuoto”, dove osserviamo un utilizzo ipertrofico della maschera. La maschera non esprime una difficoltà nell’identificazione, si configura semmai come un eccesso di identificazione che non lascia posto ad un’apertura verso l’alterità. Il sintomo odierno è l’ipertrofia dell’Io, che esclude la possibilità di un rapporto dialettico tra il proprio desiderio e l’Altro. Mentre la clinica classica della nevrosi trova il suo perno nella rimozione e i sintomi sono il segno di una “mancanza a essere”, la clinica del vuoto si costituisce come una rottura del legame con il Simbolico e rigetta quindi ogni questione rispetto al desiderio e all’Altro.
I nuovi sintomi (attacchi di panico, anoressie, bulimie e nuove forme di dipendenza) non sono più la metafora di un significato rimosso, ma rappresentano sempre più la spinta ad agire, scavalcando la mediazione del linguaggio, mostrando un godimento mortifero e senza dialettica con l’Altro. Il fondo psicotico della clinica contemporanea riguarda in effetti proprio questa debolezza nei confronti del godimento che va di pari passo con il ritorno dei sintomi sul corpo del soggetto. Anoressia, bulimia, tossicomania e attacchi di panico mostrano la varietà di questi ritorni e il loro motivo comune: la parola è surclassata dal godimento come evento del corpo. C’è in molti di questi casi una sfiducia completa nella comunicazione.
Nella difficoltà del verbale di questa clinica, è possibile riuscire ad aprire ad un altro canale, stabilire un linguaggio attraverso l’ascolto paziente del corpo e delle emozioni. La psicoterapia corporea diventa uno strumento prezioso in questi casi di mutismo e non significantizzazione delle parole..
I sintomi contemporanei sono quindi marcati da un eccesso libidico che scarta la funzione della parola. L’anoressia o le tossicomanie aprono uno scenario psicopatologico che esclude il riferimento all’Altro e si configurano come il tentativo di fare barriera alla relazione intersoggettiva.
L’anoressia è la drammatica messa in atto del rifiuto dell’Altro. L’uso di sostanze stupefacenti è il ricorso ad un oggetto che consente di godere, facendo però a meno della presenza di un altro soggetto.
L’attacco di panico e la depressione costituiscono un indice di questa vacillazione profonda delle fondamenta del soggetto e del legame interpersonale: il panico fa emergere infatti la vita fuori da qualsiasi rappresentazione e da qualsiasi limite, mentre la depressione evidenzia lo svuotamento del desiderio, che strutturalmente si configura come desiderio del desiderio dell’Altro.
Assistiamo al passaggio dalla dialettica del desiderio al nichilismo. Queste osservazioni sono sempre più frequenti soprattutto in ambito istituzionale.
Questa tendenza auto-segregativa è un aspetto che in modo più diffuso investe anche altri livelli del vivere contemporaneo: basti pensare all’acquisto compulsivo di oggetti-gadgets, ormai unica meta del desiderio, o alla ricerca del godimento fine a se stesso.
Si potrebbe chiamare il regime di funzionamento attuale della civilizzazione, “l’epoca in cui l’Altro non esiste”, come ha detto Alain-Miller. Nella contemporaneità il rapporto con l’Altro è segnato dal declino, declino che lascia il soggetto privo di riferimenti simbolici. Il tramonto della funzione strutturante dell’Ideale ha lasciato il posto ad un imperativo che impone una spinta all’eccesso. Nell’epoca contemporanea l’unico Ideale è infatti quello anti-ideale, cinico, della spinta a godere. Tra Freud e noi passa lo spartiacque di un mutamento socio-culturale che ha visto la trasformazione del messaggio sociale: dall’interdetto rivolto al desiderio si è passati ad un invito a godere in modo sempre più eclatante. l’Ideale ha cioè perso valore rispetto al godimento.
C’è anzi una idealizzazione della de-idealizzazione, è incoraggiato un consumo sempre più eclatante dell’oggetto, che però non è mai il proprio oggetto (a). Il discorso consumistico illude le masse di trovare il proprio oggetto (a) per poi alimentare ipnoticamente il circuito infinito del suo consumo, nel rimando da un oggetto al successivo. Il rapporto con la particolarità del proprio desiderio viene assorbito nella spersonalizzazione del consumo degli oggetti, che riduce il soggetto a solo elemento di una massa.
Se il valore simbolico degli Ideali non organizza più lo stile di vita del soggetto, assistiamo allora ad una deriva soggettiva in cui il percorso esistenziale è ridotto a una modalità di godimento, a una modalità di consumo della vita. Il godimento tende a saturare la mancanza-a-essere del soggetto.
Il reale è l’impossibile, il reale è il contingente.
Due sono gli impossibili, la morte e il sesso.
La morte infatti non si può padroneggiare, è lei che vanta sull’uomo una padronanza assoluta, inoltre la pulsione di morte è un’assenza di senso che si colloca alla radice della vita.
Per quanto riguarda il sesso Lacan introduce il suo celebre aforisma sull’impossibilità del rapporto sessuale: “Non c’è rapporto sessuale” . Per quanti rapporti sessuali si possano avere, nessun rapporto sessuale permetterà mai di essere Uno con l’Altro.
IL godimento relativo alla funzione fallica non è mai godimento di un soggetto. Godimento del corpo dell’ Altro, ma è sempre e solo godimento di un oggetto, l’oggetto(a). E’ da questo elemento strutturale che Lacan disgiunge l’esperienza del godimento da quella dell’amore.
Ma il reale è anche il contingente.
L’amore è la dimensione più pura della contingenza.
La dimensione della contingenza si identifica con l’evento, la tyche, nell’incontro d’amore qualcosa di nuovo può scriversi.
L’amore non è solo una passione immaginaria, né solo una domanda simbolica, ma si rivela anche come reale possibilità di comunicazione. L’amore è un rapporto possibile tra soggetti. Si colloca alla frontiera tra l’impossibile e il contingente.
L’amore è apertura al nuovo alla sorpresa, al non ancora pensato.
In conclusione prendiamo in considerazione due concetti di Aristotele tyke e automaton a cui Lacan si rifa per spiegare la differenza tra evento contingente ed evento ripetitivo. Il primo è il caso, la singolarità, la sorpresa, il secondo è la legge ineluttabile di natura che conduce, attraverso la ripetizione del godimento, alla morte.
La tyke è la contingenza, la declinazione singolare, non è riconducibile all’ordine deterministico della legge di causa-effetto. L’inconscio è sorpresa, è aleatorio, è l’emergere discontinuo dell’evento, perché è l’incontro, che si sottrae al senso che regola il mondo fenomenico.
In un passaggio del Seminario XI, Lacan fa riferimento al concetto di clinamen. Il clinamen secondo Lucrezio è uno scarto che segna il percorso degli atomi, elaborazione del concetto di paraclisi introdotto da Epicuro. Rappresenta la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta nel vuoto in linea retta. Grazie a questa deviazione casuale, sia nel tempo sia nello spazio, gli atomi possono incontrarsi.Grazie al clinamen gli atomi che scendono perpendicolarmente si incrociano e si legano dando vita ai corpi, generando un'infinità di mondi possibili.
Anche la clinica è clinamen, incontro attraverso l’analista, con il proprio reale impossibile.
L’incontro d’amore è una contingenza. È il punto in cui qualcosa smette di ripetersi uguale a se stesso. La contingenza permette una deroga all’impossibile.
La morte e il sesso per Lacan costituiscono due impossibili, ma nell’incontro d’amore qualcosa di nuovo si scrive. Qualcosa dell’impossibile cessa di non scriversi.
La spinta amorosa fa di un incontro contingente una necessità che sospende, almeno nella contingenza dell’incontro, l’impossibile.
Ascoltiamo dal De rerum Natura di Lucrezio.
APPENDICE
Il clinamen
A questo proposito voglio che tu sappia anche che, quando i corpi cadono diritti attraverso il vuoto per il loro peso, in qualche tempo e luogo non definiti deviano per un poco, tanto che appena 220 può dirsi modificato il loro percorso1. Se non usassero deviare, cadrebbero tutti come gocce di pioggia nel vuoto profondo, non si produrrebbero scontri né urti fra gli elementi, e la natura non avrebbe creato mai nulla. 225 Se c’è chi crede che i corpi più pesanti, cadendo dritti nel vuoto a maggiore velocità, per ciò possano piombare dall’alto sui corpi più leggeri e in tal modo produrre gli urti che diano vita ai moti generativi, va molto lontano dalla vera ragione. 230 Tutte le cose che cadono attraverso l’acqua e l’aria sottile accelerano necessariamente il proprio moto a seconda del peso, perché la sostanza dell’acqua e la tenue natura dell’aria non possono trattenere ogni oggetto alla stessa misura, ma cedono più velocemente, vinte dai corpi di maggior peso. 235 Ma in nessuna parte e nessun momento il vuoto può resistere a qualunque cosa senza ritirarsi, come chiede la sua natura; per ciò tutti i corpi, attraversando il vuoto immobile, devono cadere egualmente, pur avendo peso 240 diseguale2. Dunque i più pesanti non potranno mai piombare dall’alto sui più leggeri e produrre gli urti capaci di modificare il moto per cui la natura dà vita alle cose. È dunque necessario che i corpi deviino un poco, non più di un minimo: non dobbiamo immaginarci 245 movimenti obliqui, smentiti dalla realtà stessa3. Vediamo infatti ben chiaro ed evidente che di per sé i corpi non possono muoversi obliquamente 1. quando… percorso: gli atomi, caden¬do verticalmente nel vuoto, in momenti e punti indeterminati si scostano dalla linea retta: questo è il clinamen (vv. 216-220). La caduta verso il basso è dovuta al peso, che è la causa del movimento. 2. Se c’è chi crede… diseguale: Lucrezio rifiuta giustamente l’idea che gli atomi più pesanti possano raggiungere quelli più leggeri nella caduta, e che sia questa la causa degli urti: è vero che i corpi più pe¬santi cadono più velocemente di quelli più leggeri, ma ciò avviene perché essi cadono attraverso l’aria o l’acqua che, benché sia¬no sostanze sottili, tuttavia offrono resi¬stenza alla caduta, resistenza che è tanto maggiore quanto più è leggero il corpo che cade. Ma il vuoto non può offrire resisten¬za ai corpi, e dunque essi cadono tutti allo stesso modo. 3. È dunque necessario… stessa: la cau¬sa degli urti va cercata altrove, e Lucrezio la trova nella deviazione degli atomi dalla linea retta.14 De rerum natura Lucrezio Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010
quando precipitano giù dall’alto, come si può vedere4.
Ma chi è che può vedere che non deviino
250 assolutamente dalla linea retta nel loro percorso?
Infine, se ogni movimento è connesso ad altri,
e il nuovo nasce dal vecchio in un ordine determinato,
e gli elementi deviando non provocano
l’inizio di un moto capace di spezzare le leggi del fato,
255 in modo che la causa non segua la causa all’infinito,
da dove nasce in terra per gli esseri viventi, ti dico,
la libera volontà indipendente dal fato,
grazie alla quale procediamo ognuno dove lo guida
il piacere, e deviamo dal nostro percorso non in luogo
260 né in tempo determinato, ma quando lo decide la mente?
Senza dubbio è la volontà di ciascuno che dà inizio
a tutto ciò, e di qui i moti si diffondono per le membra5.
Non vedi che quando si aprono tutte d’un colpo le sbarre,
la forza smaniosa dei cavalli non può prorompere
265 subito come la mente di per sé vorrebbe?
Tutta la massa della materia deve essere
sollecitata per tutto il corpo perché, sforzata attraverso
tutti gli arti, segua la volontà della mente;
così vedrai che l’inizio del moto si crea dal cuore
270 e procede all’inizio della volontà del nostro animo,
poi si diffonde per tutto il corpo e le membra.
Non è come quando avanziamo spinti da un urto,
per la forza preponderante e la spinta di un altro.
In quel caso è evidente che tutto il nostro corpo
275 si muove ed è trascinato contro il nostro volere,
finché la volontà non lo frena attraverso le membra.
Non vedi dunque che, benché una forza esterna costringa
spesso molti uomini a procedere contro il loro volere
e a farsi trascinare a precipizio, tuttavia c’è nel nostro petto
280 qualcosa che può fare resistenza e combattere?
Al suo volere anche la massa della materia
è spesso costretta a piegarsi attraverso le membra e gli arti,
e a frenarsi e a indietreggiare nel proprio slancio.
È dunque necessario riconoscere che anche nei corpi elementari
285 c’è un’altra causa di moto oltre agli urti e al peso,
da cui ci arriva questa facoltà innata
poiché sappiamo che nulla viene dal nulla6.
Il peso impedisce che tutto si produca attraverso gli urti
4. Vediamo infatti… vedere: come è suo solito, Lucrezio parte dall’esperienza. 5. Senza dubbio… membra: dai movi¬menti degli atomi nel vuoto Lucrezio pas¬sa alla più delicata e complessa di tutte le strutture atomiche, la mente dell’uomo: è la volontà della mente umana che prova l’esistenza della deviazione degli atomi (vv. 261-280). 6. È dunque necessario… dal nulla: que¬sta è la conclusione della teoria del clinamen (vv. 284-287): se esiste nell’uomo la volon¬tà della mente, una simile libertà di movi¬mento esiste pure negli atomi; il clinamen è dunque la terza causa del movimento de¬gli atomi, oltre agli urti e al peso.15 De rerum natura Lucrezio Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010
4. Vediamo infatti… vedere: come è suo solito, Lucrezio parte dall’esperienza. 5. Senza dubbio… membra: dai movi¬menti degli atomi nel vuoto Lucrezio pas¬sa alla più delicata e complessa di tutte le strutture atomiche, la mente dell’uomo: è la volontà della mente umana che prova l’esistenza della deviazione degli atomi (vv. 261-280). 6. È dunque necessario… dal nulla: que¬sta è la conclusione della teoria del clinamen (vv. 284-287): se esiste nell’uomo la volon¬tà della mente, una simile libertà di movi¬mento esiste pure negli atomi; il clinamen è dunque la terza causa del movimento de¬gli atomi, oltre agli urti e al peso.15 De rerum natura Lucrezio Copyright © 2010 Zanichelli editore S.p.A., Bologna [9308] Questo file è una estensione online del corso A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina, © Zanichelli 2010
come per una forza esterna. Ma che la mente
290 in tutto ciò che compie non abbia una necessità interna,
che non sia sconfitta e costretta a sopportare,
ciò nasce proprio dalla piccola inclinazione degli elementi
che avviene in un momento e un punto indeterminati7.
7. Il peso impedisce… indeterminati: gli ultimi sei versi (vv. 288-293) costitui¬scono la conclusione dell’intera sezione
7. Il peso impedisce… indeterminati: gli ultimi sei versi (vv. 288-293) costitui¬scono la conclusione dell’intera sezione